Fabio Natta

Il silenzio di Gibellina

 

Nel gennaio del 1968 un forte terremoto colpì la Valle del Belice, distruggendo anche la città di Gibellina, nell’entroterra trapanese.

 

Il Cretto di Burri, una sorta di sudario di cemento bianco, ripercorre e racconta le storie della città vecchia, ricostruendone la pianta originaria.

 

Attraversare queste che un tempo erano le vie del paese, nel silenzio e nella solitudine più assoluti, avvolto solamente dal caldo torrido dell'estate siciliana è stato emozionante ed inquietante.

 

Non è un gioco

Il pensiero corre subito indietro nel tempo, quando anche la strada sotto casa si trasformava nello stadio di calcio più bello del mondo. I campi di calcio, di basket o di palla a volo, tutti luoghi un tempo popolati da decine di ragazzi.

Bastava una palla, a volte anche solo qualcosa che le somigliasse e in due minuti si formavano le squadre e la competizione aveva inizio. In campo ci si ritrovava sempre, alla perfezione e ognuno sapeva a chi dare la palla. Ci si ritrovava in tutti i sensi, perché quelli erano i nostri punti di ritrovo, punti di aggregazione. Si giocava, si stringevano amicizie, si litigava, ma non si era mai soli.

 

Oggi passo per la strada e vedo quei campi tristemente deserti, racchiusi tra le barriere create dai caseggiati, o nell’oratorio della parrocchia di quartiere.

 

Il punto di aggregazione è cambiato. Non è più il campetto o la strada, non è più un luogo fisico, oggi il punto di aggregazione è un luogo virtuale, è il nulla; spesso il divano di casa. 

 

I ragazzi ci sono, ora come allora, ma sono totalmente assorbiti e ipnotizzati da quella luce, quella che esce dagli schermi degli smartphone. Si ritrovano a decine, centinaia, forse migliaia, si ritrovano in rete, online, tutti impegnati a sfidarsi in combattimenti virtuali, ma tutti inesorabilmente soli. Oggi si è perso il piacere dello stare insieme, del confronto del “vediamoci alle 9”.

Non si corre più, non ci si muove più, ci si è scordati che il movimento è il primo mezzo di comunicazione con l’ambiente. Anche le patologie che susseguono a questi nuovi giuochi sono molto diverse da quelle dei miei tempi, oggi sono i rischi derivanti dall’iperconnessione, dal deficit di sonno, dall’isolamento sociale, disturbi che toccano la sfera psicologica piuttosto che quella fisica.

 

L’idea di fare questa ricerca fotografica nasce quasi per caso, scorgendo un campetto deserto e, lì accanto, un gruppo di ragazzi intenti ognuno a guardare il proprio cellulare. Da lì la riflessione che quei ragazzi, pur formando un gruppo, pur giocando tra di loro, erano soli. Ognuno guarda ed interagisce con il proprio dispositivo digitale, che può essere lo smatphone così come la consolle di gioco della Play Station per esempio. Ci si connette alla rete, si entra a far parte di una partita dove i giocatori sono dislocati chissà dove, parlano chissà quale lingua ma di fatto si è da soli; nel migliore dei casi un monitor od un televisore è l’unico interlocutore.

 

E questo sembra essere il futuro. Tutto o quasi, ormai viene delegato agli smartphone e purtroppo anche il gioco, il divertimento sembra non poter sfuggire a questa logica. 

 

Gennaio 2020

 

 

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